Quattrocentoventi

Lo Scais Alla sera da rifugio
Regione: 
Lombardia
Gruppo montuoso: 
Orobie
Località: 
Pizzo Redorta
Tempo di percorrenza: 
5h
Difficoltà: 
D+

Indovinate cos’è, non è il PIN del C/C del presidente, non è il PUK del cellulare del direttore, ma allora cosa è??? Se proprio non ci riuscite ve lo dirò io. Quattrocentoventi, sono i giorni che ci dividono dall’ultimo report che i ragazzi della Scuola di Alpinismo “Renzo Cabiati” del CAI Seregno hanno scritto e pubblicato nel sito istituzionale.

Se ci dedicate cinque secondi, sono quattordici mesi, sessanta settimane, quattrocentoventi giorni. In effetti è passato molto tempo, ma come tutti sapete, in questo lasso di tempo siamo stati attraversati, sconvolti e assopiti nei nostri pensieri quotidiani da una parola, una sola parola: SARS-CoV-2, o più famigliarmente COVID.

Ecco spiegato il motivo di questo lungo silenzio, che era, giustamente ora di interrompere e dare fiato e voce alle storie di appassionati dilettanti alpinisti. Nei lunghi periodi di restrizione alla mobilità e liberta personale, per dirla in italiano corretto, snobbando quei termini anglofoni, che con due paroline dicevano la stessa cosa, ma pronunciate dagli italiani suonavano nei più svariati vocalizzi. Proprio in quei lunghi periodi guardando in rete e nei siti alpinistici, non si trovava nulla, poi lentamente in base ai colori, alle riaperture, alle interpretazioni, si perché i DPCM, non andavano letti e applicati, ma bensì letti e interpretati, cercando il baco legislativo, per giustificarsi e riuscire a tornare per montagne.

Cosi è stato, lentamente, con cautela, siamo tornati a calzare scarponi e sci e via giù dalle montagne scodinzolando felici come non mai, poi ripellare e ridiscendere più volte e per più giorni. Quindi alzarsi presto, con la limitazione del coprifuoco, che per la gioia di qualcuno, almeno era certo che prima delle cinque non si sarebbe partiti, abbiamo ripreso a battere ghiaccio. Infine la roccia, si anche scalare, in falesia, qualche vietta, al sole o nel vento.

Che bello pensare che tutto fosse come prima, incredibile, la tanto odiata routine ora sembra essere diventata la cosa più bella. Ci siamo stancati del lavoro da casa, delle video conferenze, della scuola a distanza, si predica in un modo, poi si fa chiaramente il contrario.

Tutta questa prefazione, per cominciare finalmente a raccontarvi di una bella salita in montagna vissuta tra sabato 24 aprile e domenica 25 tra le alte cime Orobiche di Valbondione. I personaggi del racconto sono due amici, due alpinisti, due persone tanto uguali, quanto tanto diverse, per cominciare li dividono quasi venti anni, insieme hanno circa quarantacinque anni di trascorsi alpinistici.

Sabato ore 14.30, orario fissato per il ritrovo, chiaramente disatteso di almeno quindici minuti; carica gli zaini, i viveri, il ricambio per il giorno seguente, pronti via: statale 36, autostrada A4, uscita Seriate, Val Seriana finalmente si giunge a Valbondione. Parcheggiata l’auto ci prepariamo e con una tranquillità fuori dal comune saliamo lentamente il sentiero per il rifugio Coca-Merelli. Durante la salita si chiacchera argomentando un po’ di tutto, fanno capolino sui prati camosci e stambecchi, l’aria è frizzante, sappiamo che il locale invernale è aperto, fornito di coperte e ben dieci posti letto, io mi metto al piano superiore, ok gli fa eco il compagno, anche io preferisco stare sopra. Rifugio in muratura color bianco con le persiane rosse, non puoi non vederlo, ma ecco la sorpresa, svoltato l’angolo per accedere al locale invernale, un capannello di persone che armeggiano con picozze, imbraghi e moschettoni. Un colpo d’occhio due conti, siamo in quattordici, noi siamo gli ultimi, insieme ad altri due, dormiremo sul pavimento, che culo!!! Chiaro che le sfighe non arrivano mai da sole, in fianco a me per tutta la notte un caterpillar sei cilindri diesel mi fa compagnia, che culo!!!

Domenica ore 03.00, sveglia, riassettiamo il nostro giaciglio, ci vestiamo di tutto punto, mangiamo qualcosa, si dividono i materiali e a me tocca la corda, che già avevo portato il giorno prima e che riporterò per tutto il giorno, che culo!!! Frontalino acceso sul caschetto e cominciano la processione di avvicinamento, in otto sono diretti al canale Tua, quattro restano nelle cuccette e in due si dirigono al couloir Fantasma, ovvero io e il mio compagno. Un bel conoide da risalire ancora al buio per arrivare alla base prima che il sole salga, il couloir e esposta a est. Primo tiro parte il compagno, subito si ingaggia, mette una vite, non è un granché, qualche metro, un’altra vite, avanti, ripulisce le rocce dalla neve inconsistente, ecco una bella fessura, dentro un friend, ora siamo più tranquilli tutti e due, gira uno sperone e non lo vedo più. La corda scorre, venti, trenta metri, uno stop, si starà proteggendo, riparte, quaranta, quarantacinque, si ferma, bene, passano tre, cinque, dieci minuti, poi finalmente sento: molla tutto, eseguo, poi rincalzo: vengo, recupera.

Mentre salgo mi rendo conto che non era affatto banale il tiro, è stato proprio bravo, rocce lisce e protezioni difficili da piazzare. Giunto in sosta, rapido scambio di materiale e sono pronto per il mio tiro, sulla carta cinquanta metri, un bel diedro verticale con ghiaccio sottile, nessuna protezione in loco, recita la fotocopia che abbiamo con noi, iniziamo a ballare. Lasciata la sosta salgo qualche metro e… scorgo l’unico chiodo che troveremo lungo tutta la via, lo rinvio, poi appena dopo ne metto uno, mi sposto a sinistra e mi trovo su una placca liscia con pochi centimetri di ghiaccio, saranno due metri o poco più, poi sopra scorgo dei buoni riposi ma ragazzi che pelo, un respiro profondo, picozzate delicate, piedi precisi, e su, piano piano. Strozzo un cordone su una colona di ghiaccio che pare ridicola ma mi dà la fiducia necessaria per altri due passi, poi finalmente del ghiaccio buono, metto una vite, poi ancora avanti, lo zaino mi da un po’ di fastidio, avanzo piazzo una seconda vite, ho fatto meta del tiro, non vedo più la sosta sotto, ma non vedo ancora quella sopra. Ora davanti a me una fessura che pare scolpita precisa per un friend, non me lo faccio certo dire due volte, lo cerco sul porta materiale dell’imbrago e tac è li preciso pronto da essere rinviato, prendo fiato e avanti, non posso fare diversamente. Salgo, da sotto mi giunge voce che non ho più che dieci metri di corda, un occhio a sinistra, uno a destra, e come d’incanto vedo la sosta: tre chiodi di cui due nuovi, un bel cordino in kevlar e un maillon, bingo. Mi assicuro preparo e comincio a recuperare; sono due tiri, solo due, cento metri scarsi, ma ci hanno ingaggiato per quasi due ore, sono le otto, ora per ripido canale, ci aspetta la parte finale tutta da pestare con neve abbondante che sta mollando, con pendenze tra cinquantacinque e sessanta gradi, sarà un vero calvario.

Il gioco delle alternanze fa si che in vetta alla croce ci arrivi io, ma onestamente questa volta se lo sarebbe proprio meritato il mio compagno. Ingurgitiamo qualcosa di solido e sorseggiamo un po’ di acqua, riprendiamo fiato, recuperiamo le forze e ancora legati cominciamo la discesa per il canalone Ovest, dobbiamo stare concertati ancora un poco, la prima parte la facciamo fronte al pendio, poi diminuisce la pendenza e possiamo girarci, giungendo cosi ad un pianoro. Fermata, ci sleghiamo, mettiamo via un po' di materiale, per poi riprendere a mezza costa il cammino per il rifugio Brunone, siamo anche in orario, per mezzogiorno potremmo raggiungerlo.

Mai simili previsioni furono tanto disattese.

La neve ormai ha mollato un passo ogni tre si sfonda venti anche trenta centimetri, di buono c’è che ormai abbiamo davanti un lungo traverso in falso piano, poi tutta discesa, dal rifugio a Fiumenero in tre ore abbondanti dovremmo arrivare, poi, se la sorte ci sorriderà, un passaggio in autostop per recupera la nostra auto a Valbondione, altrimenti a piedi!!!! Cammino spedito vedendo già il tetto del rifugio, quanto d’improvviso sento il mio nome strillato nell’aria da una voce spaventata, mi giro istintivamente ma non vedo nessuno, butto a terra lo zaino e ancora sento la stessa voce, torno a ritroso sui miei passi fino a quando vedo il mio compagno in piedi senza zaino che dice: “mi sono fatto male al ginocchio”.

Bene, anzi malissimo, è impossibile arrivare al paese, non ci resta che chiamare il 112. Facciamo la chiamata di soccorso, spieghiamo come, perché, quando, dove siamo, quindi attendiamo la richiamata, che arriverà dopo molto tempo, perché purtroppo nel frattempo si è verificato un altro sinistro ben più serio. Finalmente la richiamata, chiedono dell’infortunato, chiede di restare con lui e non lasciarlo solo confermano che per le 15.30 arriveranno. Finalmente dopo altre due o tre telefonate, in lontananza si ode l’inconfondibile rumore dell’elicottero, mi posiziono a braccia alzate con il vento in faccia e indico una grande “H” fatta sulla neve dove posare i pattini. Veloce arriva il tecnico che mi invita a caricare gli zaini, quindi a salire, ora preso di peso il compagno lo posiziona nella barella, si chiude il portellone e in quindici minuti siamo a Bergamo all’ospedale Giovanni XXIII.

Morale dodici ore di intesa fatica per un rientro da vip, come simpaticamente ci ha scritto un amico su WhatApp. Protagonisti diretti, loro malgrado di questa avventura/sventura: Gigi e Beppe.

Questa volta chiaramente per ovvi motivi, non mi sento di chiudere il racconto dicendovi: alla prossima.

Beppe

25/04/2021
uno stambecco lungo il sentiero per il rifugio Coca
lo Scais al tramonto
Beppe all'inizio del canale
Beppe sul primo tiro del Couloir
Beppe sul secondo tiro
la sosta di uscita
in vetta
il taxi per il ritorno