È una meravigliosa domenica di novembre e il sole splende solo per noi, impavidi aspiranti arrampicatori. No, non è vero, piove di continuo da una settimana e solo oggi sembra concedere una tregua, ma il sole si fa desiderare e ci regalerà solo un breve assaggio del suo calore, facendo capolino tra le nuvole per al massimo 5 minuti. In compenso c’è un’umidità discreta, che ti penetra nelle ossa e fa cigolare le articolazioni.
Il rituale di inizio è sempre quello: dopo la partenza, il ritrovo in bar scelto accuratamente per fare colazione, dove entriamo con la grazia di una mandria di bufali ed usciamo lasciandoci dietro una selva di tazzine e montagne di briciole.
Questa volta lo scenario della nostra uscita è la Valsassina, così da assaporare un pochino anche le bellezze paesaggistiche locali (e risparmiarci soste in autogrill invasi da pulmann di pensionati).
Arrivati finalmente a destinazione, ci accoglie una bella parete liscia e verticale, che subito mette allegria e fiducia in tutta la comitiva: “Ma mica dovremo arrampicarci su lì, vero?”. Grazie al cielo no, ma scatta subito il momento didattico e Gigi sfodera l’ultima edizione della guida all’arrampicata sportiva nella zona lecchese, un comodissimo tomo di circa 2 kg di peso, tascabile solo se sei parente di Hagrid (chi non conoscesse Harry Potter è pregato di documentarsi); veniamo così a conoscenza che i “condor” (parola che troviamo scritta sulla parete che ci mette tanta ansia) non sono soltanto dei simpatici volatili, ma anche un gruppo di arrampicatori storico del lecchese, nato da un’intuizione di un sacerdote che utilizzava l’arrampicata come strumento educativo alternativo.
La breve parabola didattica non finisce qui, Gigi ci illustra termini tecnici (untosità, esposizione ed altri che non ricordo) ed altre sottigliezze, ma il tempo stringe e noi siamo come al solito in ritardo.
Dopo un breve camminata, sufficiente a far montare l’acido lattico nelle gambe di chi scrive questo report, giungiamo infine alla meta: i Pilastrini. La prima cosa che si nota appena arrivati è che non si debba stare attenti a dove mettere i piedi solamente quando arrampichiamo, ma anche quando siamo a terra; lo spazio è poco, il terreno è scivoloso e ci sono dei grossi sassi che ogni tanto decidono di rotolare verso la libertà, con grande rumore ed anche un po’ spavento.
“Presto! Presto! Che è già tardi”, tuona il Diretur e da bravi allievi ci dividiamo in gruppetti ed attacchiamo i tiri (notare il linguaggio tecnico che migliora lezione dopo lezione); ogni tanto fa capolino dal bosco qualche altro gruppo di climber, alla ricerca di un tiro libero, ma presto desiste vinto dal nostro gruppone.
La mattinata scorre Serena, tra chi arrampica con agilità e scioltezza e chi un po’ meno (ogni riferimento a chi scrive è puramente casuale), e presto giunge il momento della famigerata “manovrina”: una parola che viene annunciata con tono sottilmente minaccioso già qualche giorno prima delle uscite e che fa sudare freddo tutti noi, soprattutto se la suddetta manovrina viene fatta a parecchi metri di distanza dal suolo (altro riferimento casuale).
Con qualche parolaccia di troppo il momento “manovrina” viene agilmente superato, ma il tempo scorre e la fame avanza; da un’attenta osservazione del momento di pausa si possono dividere le persone in due sottocategorie: quelle che si sbaferebbero un cinghiale arrosto sotto i tiri (ogni riferimento etc etc..) e Ciccio, che assaggia a malapena 4 mandorle e beve un sorso d’acqua in tutta la mattinata.In tutto questo si ha comunque il tempo di fare quattro chiacchere e risolvere quesiti legati al mondo dell’arrampicata, per esempio da dove derivi il fatidico “Alè!”, che i nostri istruttori ci urlano spesso come incitamento, soprattutto quando hai tutto il peso sull’unghia del tuo alluce destro e devi darti uno slancio verso una minuscola presa alla comoda distanza di 2 metri da te, ovviamente a sinistra.A quanto pare questo termine deriva dai climber francesi, che sono considerati i padri dell’arrampicata sportiva.
Dopo il sostanzioso pranzo (mio, di Ciccio no di sicuro) la mia compagna di sventure ed io ci apprestiamo ad affrontare quella creatura mitologica che prende il nome di diedro, una conformazione rocciosa da scalare con le gambe in spaccata che manco Carla Fracci e i femori che implorano una pausa.Ma noi del corso siamo tosti ed anche questa sfida viene superata abilmente, con grandi soddisfazioni ed il fiato un po’ grosso per lo sforzo.
Le ore corrono, è tempo di andare, sembra quasi che la pioggia incomba ancora su di noi e così comincia il rituale del raccogliere e sistemare corde, contare i rinvii e fare gli zaini.La discesa è rapida, il ritrovo, per chi vuole, è una formaggeria poco distante, dove tra birre, taglieri misti e polenta taragna tutte le calorie consumate vengono rapidamente rimpiazzate, possibilmente anche triplicate; da questo momento di convivialità scaturisce una preziosa perla di saggezza del serafico Ciccio: “Vedi che non conviene mangiare molto quando scali, perché tanto poi si mangia dopo”.
E qui si conclude la nostra domenica trascorsa tra sforzi, sudore e grandi soddisfazioni, molto non è stato scritto, ma ognuno di noi di conserverà qualche ricordo speciale, in attesa della due giorni a Finale Ligure (chissà che cosa si inventeranno stavolta, i nostri simpatici istruttori).
Ah...qualcuno mi può rispiegare che cosa sia una cengia, per favore?
Giuditta