“Dal manuale CAI delle Giovani Marmotte, pagina zero: se il ritrovo è alle sei, arriva alle quattro meno un quarto.”
Inizia alle 5:59 con un messaggio vocale del Vulcanico la tranquilla domenica di ritorno in parete del Brambi, aka Stefano Brambilla, colpevole di non essere sufficientemente in anticipo sulla tabella di marcia. Il Vulcanico non può che essere Beppe, carico come una manza da miniera, che durante la giornata dispenserà consigli, decanterà buone pratiche, scalerà trad sulle pareti di calcare marziano in quel di Sanico e arriverà persino a prevedere il futuro.
La giornata comincia con il Maragià che si avventa su uno spezzone dimenticato di corda come un gipeto che plana su un mucchio d’ossa. Nel frattempo, il Vulcanico è già a metà del primo tiro. La roccia è bellissima, il caldo si fa sentire ma la voglia di salire è tanta. Il secondo tiro è mio, riesco a liberarlo (evviva!), e due lunghezze più tardi siamo in cima ad Arichi, la prima via della giornata.
Prima via perché il Vulcanico non si accontenta, e comincia una calata a ritmo di marcia.
“Dal manuale CAI delle Giovani Marmotte, pagina sette: se il Vulcanico ha fretta, fanàiman. Formula magica in uso presso le comunità indigene della piana del Lambro, nel linguaggio corrente: muovi il deretano.”
Durante la discesa, impressiono così favorevolmente il Vulcanico che i complimenti piovono come sassi in Dolomiti:
“Hai la manualità di un macaco!” grida, mentre svito una ghiera.
“La piastrina, la piastrina, la piastrina!” ulula, mentre i polpastrelli mi sfrigolano sul metallo rovente come pasta di salsiccia.
“Il machard, il machard, il machard!”. Pausa. “IL MACHARD.”
L’ultima calata nasconde un tranello degno di una strega. Le mezze mi permettono a malapena di arrivare a terra, sono tese come corde di chitarra, e mentre mi preparo a cuocermi le dita per liberarle, ecco Beppe che piomba su di me, rapido come un déjà vu.
Ha già visto tutto, perché Egli vive un momento nel futuro:
“Tieni la cordaaaaaaa!”
Afferro la corda appena in tempo, prima che rimbalzi su in alto, nello spazio siderale del cielo.
“Tieni il moschett...”
No, io non mi muovo nel tempo come il Vulcanico, e prima che possa dire altro, il mio moschettone si perde nel fogliame a ingrassare il prossimo pasto del Gipeto Maragià.
Su un’altra linea temporale, fonti autografe raccontano che Stefano Brambilla e Maragià abbiano inaugurato la stagione del free solo a Sanico, per andare a recuperare le corde rimbalzate fino a metà parete.
Giusto il tempo di schivare un asteroide e siamo di nuovo in pista, su Melissa Slimoncella. Qui mi accade un fatto strano. A un tratto il Vulcanico interrompe la progressione e si volta verso di me, forse per controllare che non mi sia dato alla fuga, forse per mostrarmi la via del potere della furia (anche conosciuta come celerità, rapidità, prontezza, sollecitudine, superamentodellavelocitadellaluceee). È in questo momento che intravedo la bellezza dello scatto e immortalo in bianco e nero un istante senza tempo, un Beppe oltre il tempo, nella veste simultanea di pioniere del passato e del futuro.
Il resto è storia: una placca a rigole affilate come lame di scimitarra, la sete, il sole, una sosta su spuntone durante la quale i due Stefano si guardano negli occhi senza dire niente (o forse dicendo qualcosa di irripetibile su piedi gonfi e dei pagani), il lago di Garda che sembra sospeso nella foschia, le urla durante la seconda discesa, il Maragià che annoda le corde del Vulcanico e si ritrova a dover schivare un fiotto di rimproveri di lava.
La giornata è finita. Sorseggiamo birra e sogniamo di detonazioni, deflagrazioni, scioperi, occupazioni e manifesti di libertà.
“Dal manuale CAI delle Giovani Marmotte, pagina Sessantanove: il lavoro non ha mai ammazzato nessuno, ma perché rischiare?”
Stefano Galliani